“(…) la pratica in realtà riguarda il vivere, l’aprirsi a qualsiasi cosa la vita ci presenti”.
[Ezra Bayda – Star bene in acque torbide]
Thich Nhat Hanh una volta raccontò di un giornalista che gli chiese se lui fosse del Vietnam del Nord o del Vietnam del Sud. Lui si rese conto che se avesse risposto, quel giornalista si sarebbe messo in una disposizione d’animo tale per cui la sua mente avrebbe proiettato qualcosa in riferimento al fatto che appartenesse a una parte o all’altra.
Disse che era del Vietnam del centro, diede cioè una risposta geografica a una domanda politica ma soprattutto fu una restituzione sottile. Spiegò infatti che così facendo aveva protetto l’uditore. Protetto, sì, aveva impedito che questa persona arrivasse ad ascoltare le sue parole con preconcetti derivanti dal fatto di collocarlo in uno schieramento o in un altro. Le parole di Thich Nhat Hanh non parteggiano; il giornalista, con quell’informazione in più, avrebbe ridotto le sue possibilità di riflettere con piena autonomia.
Sarebbe bello se gli insegnanti di meditazione e di mindfulness non rispondessero alle domande scritte nel titolo quando vengono poste, a rischio di passare per scontrosi, sarebbe un’azione fatta per il bene di chi si approccia. E le ragioni sono molte. Innanzitutto, per dirla con Thich Nhat Hanh, perché così non si esclude tutto il resto che sarebbe tagliato fuori dal contenuto di una qualunque risposta; se dico: questo è giallo, vuol dire che non è anche rosso, nero, verde e di ogni altro colore.
Dare un nome a qualcosa non significa sempre arricchire, è sempre anche un escludere, ridurre, togliere possibilità.
Le domande del titolo dicono così tanto del fremito di qualche parte in noi che ha paura a buttarsi senza rete. Sì, qualcuno potrebbe obiettare: “Ma no! È solo sana curiosità, voglio chiedere di cosa si tratta”. Certo, legittimo.
Se invece non chiedi, cosa accade?
Se ti approcci a qualcosa senza preconcetti, come ti senti? Se dici sì a una cosa senza sapere a cosa hai detto sì, che impressione fa?
Ecco, posso provare a stare lì, proprio ora sto lì, sto nell’insieme di sensazioni, pensieri, emozioni, stati d’animo, nel disattendere schemi. Sto nel capogiro, sto lì.
Com’è? Solo pochi secondi, anche un solo attimo e poi torno sul binario. Eccolo, si apre uno spiraglio.
Quanto bene ci stiamo ad avvicinarci a qualcosa confidando solo su come vivremo l’esperienza senza averne informazioni? Forse fa capolino qualche disagio.
E d’altra parte però per quale ragione attribuiamo tanta fiducia a un perfetto sconosciuto perché sia lui a dirci cos’è una certa cosa? Spesso accettiamo di guardare le esperienze attraverso gli occhi degli altri. Certo ci diciamo che è così perché ci rivolgiamo a un esperto, tuttavia…se il tema è sentirci è anche un’esperienza tutta nostra che possiamo permetterci di vivere nell’intimità personale, ché nemmeno il cuore a noi più vicino potrà sentire pienamente come noi da dentro.
Come noi da dentro.
Interpretiamo il mondo attraverso il nostro sguardo e per come stiamo in quel momento e fase di vita. E allora perché mai dovremmo vivere un’esperienza attraverso il pur grande bagaglio personale di chi non siamo noi? Eppure quante volte accade.
È come relazionarci a una persona solo dopo che ci è stata descritta da chi -in un certo momento- ne è perdutamente infatuato o la detesta fin nel midollo.
Esperire qualcosa di non noto potrebbe -chissà- farci sentire una nota nuova del nostro cuore che c’è sempre stata ma che non abbiamo mai udito prima. Ce la sentiamo proprio di tagliare fuori tutto questo solo perché sconosciuto? A quale mia esigenza risponde la necessità di sapere prima dove andrò a parare facendo una cosa nuova (come un po’ di pratica meditativa o qualunque altra cosa) senza saperne nulla in anticipo?
È legittimo voler sapere che non siano pratiche pericolose, il punto è che di solito il nostro bisogno di sapere in modo preventivo si spinge oltre la sana cautela.
Vogliamo la rassicurazione che non andremo in un territorio incognito e preferibilmente che sarà un’esperienza di intrattenimento.
L’intrattenimento, a volte, è un’autentica fregatura.
È un po’ come se chiedessimo la sicurezza di non vivere. La vita si comporta da vita: a un certo punto fa tuffare di pancia in esperienze mai vissute e -lo sappiamo- talvolta sono sgradevoli.
Il nostro pavone interiore ci prova: sapere di non avere incognite regala la rassicurazione di poter primeggiare (sebbene nello spazio di una piscina gonfiabile). Inoltre, tiene anche distante una paura: il rischio di poter non essere il migliore. Che noia!
Ma quanta è alla fine l’energia che dedichiamo ad alimentare il nostro pavone (alias a sfamare le nostre paure)? A volte mi pare proprio una fregatura.
Chiedere a cosa serve meditare o cosa ci si può aspettare ingabbia una pratica di espansione in un seminato limitato e sintetizzabile in tre parole. Sono pratiche da esperire. Esperire è proprio una parola-parlante.
Sentire oggi, diverso dal sentire di domani, annoiarsi, intrattenersi, stare. Stare male, stare bene, rifiutare, attaccarsi, capire, non capire, demoralizzarsi, ritrovare vigore.
All’incirca vivere.
Dunque, tornando alle domande iniziali: ci sono risposte che sarebbe un atto più benevolo non dare oppure, insegnanti ironici (come molti sono) potrebbero rispondere con una domanda: “Ti metteresti in bocca dei maccheroni masticati da un altro?”.
Una risposta
Grazie per aver scelto di condividere la tua esperienza di vita. Dobbiamo imparare un altro modo di vivere, quello imposto del “possedere” è distruttivo. Ti abbraccio