il valore dell’allenamento, la pratica formale e la pratica informale

I grandi campioni di sport si allenano sempre, eppure sono già bravi, dominano con naturalezza tecnica e stile. Allo stesso modo è importante allenare la mente e familiarizzarla con pratiche di meditazione e consapevolezza. È interessante allenarci per prestare attenzione a ogni momento della giornata, non solo quando siamo seduti in meditazione.

All’inizio la mia concentrazione era scarsissima. Mi piaceva pensare e passavo la maggior parte del tempo a fantasticare. Con gli anni ho scoperto una pratica che ha contribuito molto a rafforzare il fattore del samadhi. Sia durante la meditazione camminata formale, sia quando camminavo normalmente, spostavo l’attenzione dal mero sapere di stare facendo un passo al sentire con maggior precisione le sensazioni collegate: leggerezza, pesantezza, pressione, rigidità, e via dicendo.

[Joseph Goldstein, Mindfulness]

Da dove arriva un pensiero? Dove va?
Questo è un buon inizio per misurare la temperatura della nostra mente discorsiva, quella del continuo chiacchiericcio. Basta una domanda simile a questa (o un koan) per sentire i tanti ingranaggi già in moto, aumentare la velocità e il fracasso. A me piace il paragone con una radio fuori frequenza e a tutto volume accesa nella scatola cranica. Se la spengo? Clic.

Che sensazione fa il silenzio all’improvviso?

Spesso nella pratica meditativa all’inizio è frustrante andare a riprendere mille volte la mente che si distrae riportandola sul respiro. È difficile forse ancor più credere che sia davvero un’azione fondamentale. Dopo un pochino di allenamento…no, non scompare la distrazione ma solo considerarla un fastidio e diventa invece interessante osservare quella frustrazione come movimento di avversione con il quale ci confrontiamo attraverso il nostro testimone interno.
Guardando la cosa da un altro punto di vista, le istruzioni sono facili all’apparenza: non ci viene chiesto di fare azioni complicate, quanto piuttosto noiose -soprattutto all’inizio- eppure questa porta schiude a una sempre maggiore capacità di gestire la mente, con una consapevolezza che cresce piano piano.
Per me è un allenamento proprio im-por-tan-te perché, pian piano, aiuta la mente a poter scegliere dove fermare la mente discorsiva: mi accade qualcosa che mi aggancia emotivamente? Decido di limitarmi all’osservazione del mio respiro durante questo episodio, voglio solo sentire come il mio corpo registra questa emozione. Mi fermo lì, non vado oltre la risposta del corpo. Ho deciso che quello è l’oggetto della mia osservazione? Bene, non vado oltre. È un allenamento formidabile. Ho cioè deciso -per il momento- di non entrare a etichettare nemmeno di quale emozione si tratta, di come mi sento, di cosa c’è alla base sebbene senta che qualcosa bussa. Un simile atteggiamento non ha nulla a che fare con il rifiutare di interrogarsi sulle cose importanti o col negare cose che esistono: semplicemente mi sto allenando.
Attenendomi all’osservazione dell’episodio nel corpo, solo apparentemente mi sto dedicando a un compito limitato, in realtà sto facendo un’azione potente: sto riuscendo a non farmi irretire -ad esempio- da quella forte invidia che mi ha preso ma provo a leggere le sue impronte sul mio respiro: lo sento accelerare?, oppure sul mio stomaco che sembra stringersi come un polpo allo scoglio.
Questa nostra capacità di osservare ci abilita a gestire la situazione, perché soffermandomi sulla descrizione fisica, per prima cosa sposto l’attenzione (diverso da “mi distraggo”). Metto spazio, e forse mi concedo un giusto tempo perché io abbia una reazione consapevole rispetto a una automatica. Eureka!
Esercitarci nella consapevolezza è come abilitare una serie infinita di fermo-immagine: ogni fotogramma rappresenta la possibilità di mettere in pausa e osservare e questo ci mostra il nostro enorme potenziale.
A volte è ostico misurarsi con certi “esercizi”: è come se avessimo davanti a noi visuale piena sì e no per un paio di metri, come se ci venisse insegnato a marciare solo sul posto unòddué-unòddué-unòddué.
Camminando sul posto è come se fossimo l’ago della macchina da cucire: stiamo fermi mentre la stoffa sotto di noi si muove.
Ecco, quando con fiducia seguiamo le indicazioni di un insegnante, di un Maestro è come se accettassimo di impratichirci a fare solo unòddué, con l’impressione di agire sempre e solo quei pochi passi sullo stesso fazzoletto di terra.
Immaginandoci come ago della macchina da cucire, all’inizio non vediamo neppure bene com’è tutta la stoffa sotto di noi, è come se fosse coperta da un panno per non rovinarla che ha solo un piccolo foro, in prossimità dell’ago.
Viene un momento poi, proseguendo la pratica, in cui ci si accorge, anche solo per qualche istante, di essere presenti pienamente anche fuori dal cuscino, nel corso della giornata, e poi per un altro attimo ancora, e poi la piena presenza è ancora più frequente.
In un certo senso, senza presunzione, verrebbe da dirci che forse a quel punto ci sentiamo pronti a partire, perché dopo tutto un po’ più di allenamento sentiamo di averlo fatto.
Lentamente il telo che copriva la stoffa pregiata si dissolve ma non dà alcuna indicazione di direzioni da prendere, svela piuttosto il pizzo prezioso che fin dal primo istante avevamo cominciato a ricamare.
Ci rendiamo conto che con quei numerosi e fiduciosi piccoli gesti ripetuti tante volte, e solo all’apparenza disgiunti, abbiamo fatto allenamento di consapevolezza. Tutti i nostri piccoli passi hanno creato un enorme ricamo. Sì ci sentiamo più presenti, ma non serve essere pronti per andare chissà dove, non c’è alcun altrove verso cui dirigersi, è in quel momento che ci rendiamo conto di essere sempre stati nel posto giusto: in nostra compagnia.

C’è un viaggio possibile e meraviglioso, quello dell’approfondimento, che non sceglie come unità di misura distanza, né tempo. L’approfondimento è senza misura.

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